Nel contesto economico italiano, la tutela della correttezza e della lealtà nei rapporti commerciali è considerata un principio fondamentale.
La concorrenza rappresenta un elemento essenziale per il buon funzionamento del mercato, ma quando è esercitata in modo scorretto o ingannevole può generare danni significativi per le imprese concorrenti e per i consumatori.
La giurisprudenza italiana si è occupata nel tempo di definire con precisione i limiti tra concorrenza legittima e concorrenza sleale, stabilendo criteri e principi utili per identificare i comportamenti illeciti.
Le decisioni dei tribunali, pur variando in base al caso specifico, contribuiscono a delineare un quadro interpretativo coerente con l’articolo 2598 del Codice Civile.
Analizzare come la giurisprudenza affronta questi casi consente di comprendere meglio le tutele a disposizione degli operatori economici e i rimedi applicabili in caso di violazione.
L’articolo 2598 del Codice Civile rappresenta il punto di partenza per definire la concorrenza sleale
La norma di riferimento per l’ordinamento italiano in materia di concorrenza sleale è contenuta nel Codice Civile e stabilisce i comportamenti che si configurano come contrari alla correttezza professionale e idonei a danneggiare un’impresa concorrente.
L’interpretazione di questa norma è stata affinata nel tempo attraverso numerose pronunce giurisprudenziali.
Le tre categorie di concorrenza sleale previste dalla legge
Secondo quanto stabilito dall’articolo 2598 del Codice Civile, i comportamenti di concorrenza sleale si suddividono in tre categorie principali.
La prima riguarda gli atti di confusione, come l’uso di nomi, segni distintivi o simboli idonei a generare confusione con quelli di un concorrente.
La seconda categoria comprende gli atti di denigrazione o discredito, come la diffusione di notizie false sul concorrente.
La terza categoria include ogni altro comportamento contrario ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’attività altrui.
Questa struttura normativa consente di abbracciare una vasta gamma di condotte, dalle più evidenti a quelle più subdole, come il boicottaggio commerciale, l’appropriazione di pregi non propri o lo storno di dipendenti e clienti.
L’ampiezza della norma richiede l’intervento interpretativo della giurisprudenza per determinare, caso per caso, se una condotta possa essere qualificata come sleale.
L’interpretazione giurisprudenziale dei concetti di correttezza e lealtà
Uno degli aspetti più analizzati dalla giurisprudenza è il significato del concetto di “correttezza professionale”, espressione chiave dell’articolo 2598.
I giudici hanno stabilito che tale principio implica il rispetto delle regole di comportamento normalmente osservate in ambito commerciale, anche se non formalmente codificate.
Si tratta quindi di una clausola generale che richiede una valutazione contestuale del comportamento in esame.
La giurisprudenza ha chiarito che la concorrenza sleale non richiede necessariamente l’intento doloso, essendo sufficiente la presenza di un comportamento oggettivamente idoneo a danneggiare il concorrente.
Anche l’effettiva produzione di un danno non è indispensabile per configurare l’illecito, purché esista un rischio concreto di pregiudizio per l’attività dell’impresa lesa.
Le prove richieste per l’accertamento giudiziario dell’illecito
Nei giudizi in materia di concorrenza sleale, l’onere della prova ricade sull’impresa che lamenta la condotta illecita.
È quindi necessario dimostrare l’esistenza di un comportamento riconducibile alle categorie previste dalla legge, la sua idoneità a ledere l’attività del concorrente e l’eventuale danno subito.
Le prove possono consistere in documenti, testimonianze, perizie tecniche o indagini di mercato.
I giudici valutano le circostanze con un approccio analitico, tenendo conto della natura del settore, della posizione delle imprese coinvolte e del comportamento del pubblico.
In alcuni casi, la giurisprudenza ha riconosciuto valore probatorio anche a elementi come la somiglianza grafica tra marchi o l’effetto confusorio prodotto da campagne pubblicitarie ingannevoli.
Le principali forme di concorrenza sleale secondo l’orientamento della giurisprudenza
La giurisprudenza ha individuato e analizzato diverse tipologie di comportamenti che integrano la concorrenza sleale, contribuendo a definire i confini tra lecito e illecito in ambito commerciale.
Ogni categoria presenta caratteristiche specifiche e richiede un’analisi mirata del contesto nel quale si verifica.
Gli atti di confusione e l’imitazione dei segni distintivi
Una delle forme più comuni di concorrenza sleale è rappresentata dagli atti idonei a creare confusione tra i prodotti o i servizi di imprese concorrenti.
La giurisprudenza ha affermato che la somiglianza tra marchi, confezioni, slogan o elementi grafici può determinare una lesione degli interessi dell’azienda titolare del segno distintivo originario.
L’effetto confusorio non deve essere assoluto, ma sufficiente a generare nel pubblico il dubbio sull’origine del prodotto o del servizio.
I giudici tengono conto del grado di notorietà del marchio, del livello di attenzione del consumatore medio e della somiglianza complessiva tra gli elementi messi a confronto.
Anche l’uso di nomi commerciali simili può costituire illecito, se idoneo a sottrarre clientela o indebolire l’immagine dell’impresa.
La denigrazione del concorrente e la diffusione di notizie false
Un’altra forma significativa di concorrenza sleale è la denigrazione, ovvero la diffusione di notizie atte a screditare il concorrente, i suoi prodotti o la sua attività.
La giurisprudenza distingue tra legittima critica e denigrazione illecita, affermando che quest’ultima si configura quando le affermazioni sono false, tendenziose o formulate con l’intento di danneggiare.
Anche la divulgazione di verità può essere considerata sleale se è finalizzata esclusivamente a danneggiare il concorrente e non è giustificata da un interesse pubblico o professionale.
In questo ambito, la giurisprudenza è particolarmente attenta al contenuto e alle modalità comunicative, valutando l’impatto che le dichiarazioni possono avere sulla reputazione dell’impresa danneggiata.
L’appropriazione di pregi e lo storno della clientela
La concorrenza sleale si può manifestare anche attraverso l’appropriazione indebita di pregi altrui, come l’utilizzo di denominazioni, riferimenti geografici o simboli che richiamano la qualità o la tradizione di un prodotto concorrente.
La giurisprudenza ha chiarito che anche l’impiego ambiguo di certificazioni o riferimenti normativi può costituire violazione.
Un ulteriore comportamento analizzato è lo storno della clientela, che si verifica quando un’impresa sottrae clienti a un concorrente con mezzi illeciti, come l’offerta di vantaggi indebiti, la violazione di accordi di esclusiva o l’induzione alla rescissione di contratti.
Anche il reclutamento sistematico di dipendenti di un’impresa concorrente può essere ritenuto illegittimo, se accompagnato da pressioni o violazioni di obblighi di riservatezza.
Le azioni a tutela dell’impresa danneggiata e l’intervento dei giudici
In presenza di comportamenti qualificabili come concorrenza sleale, l’impresa danneggiata può ricorrere agli strumenti offerti dall’ordinamento per tutelare i propri diritti.
La giurisprudenza ha definito i presupposti, i limiti e le modalità di intervento del giudice nei procedimenti di repressione degli atti illeciti.
L’azione inibitoria e la cessazione della condotta sleale
Una delle misure principali a disposizione dell’impresa lesa è l’azione inibitoria, finalizzata a ottenere un provvedimento che ordini la cessazione immediata del comportamento illecito.
Questa azione può essere esercitata anche in via d’urgenza, mediante il ricorso al giudice per l’adozione di misure cautelari.
La giurisprudenza ha riconosciuto l’importanza della tempestività in questi casi, sottolineando che la prosecuzione della condotta può aggravare il danno e compromettere la posizione dell’impresa nel mercato.
Il provvedimento inibitorio può includere anche l’obbligo di ritirare dal mercato i prodotti contestati o di modificare la comunicazione commerciale.
Il risarcimento del danno e la quantificazione delle perdite subite
L’impresa danneggiata può richiedere anche il risarcimento del danno, presentando prove relative alla perdita di fatturato, all’indebolimento dell’immagine aziendale o ai costi sostenuti per contrastare la concorrenza sleale.
La giurisprudenza ha elaborato diversi criteri per la quantificazione del danno, che può essere patrimoniale o non patrimoniale.
Tra i metodi utilizzati figurano il calcolo delle perdite effettive, la stima dei profitti illeciti dell’autore dell’illecito e l’utilizzo di parametri presuntivi.
Il giudice può avvalersi di consulenze tecniche o adottare una valutazione equitativa, tenendo conto della gravità del comportamento e della sua incidenza sul mercato.
La pubblicazione della sentenza e la funzione riparatoria
Un ulteriore strumento previsto dalla legge è la possibilità di richiedere la pubblicazione della sentenza a spese del soccombente, allo scopo di ripristinare l’immagine dell’impresa lesa e informare il pubblico della condotta illecita.
La giurisprudenza considera questa misura come una forma di risarcimento morale e un deterrente nei confronti di future violazioni.
La pubblicazione può avvenire su quotidiani, riviste di settore o siti internet, in base alla rilevanza del caso e all’ambito di diffusione del comportamento sleale.
Il contenuto deve essere conforme a quanto stabilito dal giudice e non può eccedere rispetto all’obiettivo di ristabilire la verità dei fatti.
Adesso sai come la giurisprudenza italiana affronta i casi di concorrenza sleale
La giurisprudenza italiana svolge un ruolo determinante nella definizione dei contorni della concorrenza sleale, traducendo in criteri applicabili i principi generali espressi dalla legge.
Attraverso l’analisi dei singoli casi, i giudici contribuiscono a garantire un equilibrio tra la libertà di iniziativa economica e la tutela degli operatori corretti.
Le imprese possono contare su un sistema di protezione articolato, che comprende l’inibizione delle condotte sleali, il risarcimento dei danni subiti e la difesa della reputazione.
Conoscere le linee interpretative prevalenti e i rimedi offerti dall’ordinamento è essenziale per affrontare in modo consapevole le sfide del mercato e promuovere pratiche commerciali fondate sulla trasparenza e sulla correttezza.
Fonte ufficiale delle informazioni: https://www.inside.agency/indagini-sui-soci-concorrenza/indagini-concorrenza-sleale/








